PUÒ ESISTERE UNA “CULTURA DELLA LEGALITÀ” NELL’ÈRA GLOBALE?

PUÒ ESISTERE UNA “CULTURA DELLA LEGALITÀ”
NELL’ÈRA GLOBALE? *

Al momento di marciare
molti non sanno che
alla loro testa marcia il nemico.
La voce che li comanda
è la voce del loro nemico.
E chi parla del nemico
è lui stesso il nemico.
(Brecht, Il nemico)

 

La scomparsa di Messina Denaro ha segnato il declino (irreversibile?) della cosiddetta mafia stragista, ossia della “vecchia mafia” radicata da secoli nel territorio, e che appunto dal territorio governava con la violenza, amministrando nel contempo le proprie entrate e i proprî traffici con estrema perizia.
Talché, può giungere a compimento il processo di innesto della ormai matura azienda mafia 2.0 nella globalizzazione. Le intraprese mafiose producono viepiù ingenti flussi di denaro e com’è noto, in assenza del limes i capitali vanno dove possono riprodursi al riparo da regole o da controlli statali. Sia chiaro, se non si colpiscono i capitali, non si colpiscono al cuore le mafie. Peraltro tutte le mafie hanno ormai delocalizzato i proprî centri/apparati di potere economico, con ciò facendosi attori finanziari globali: in questo senso, il caso paradigmatico è quello delle organizzazioni criminali cinese, giapponese e nigeriana, le quali da tantissimi anni sfruttano le dinamiche dei mercati internazionali per massimizzare i proventi dei loro traffici. Qui occorre un breve chiarimento. Secondo i canoni interpretativi occidentali, chiamiamo impropriamente “mafie” queste ultime tre organizzazioni: in realtà, si tratta di strutture che non sono affatto culturalmente assimilabili a quelle che tristemente conosciamo, ivi compresa la mafia colombiana. Le “mafie afro-asiatiche” sono – in realtà – calate nelle secolari tradizioni dei Paesi che le hanno espresse (si pensi al devoto rispetto delle gerarchie secondo il confucianesimo cinese, al bushidō giapponese, al voodoo nigeriano con cui vengono sottomessi tanto gli affiliati, quanto le vittime): il che, come si è appena detto, non ha loro impedito di diventare delle moderne società multinazionali. E dunque: Big Pharma, Big Food, Big Crime. Chiosa finale: né in Cina, né in Giappone, né in Nigeria, sono mai stati aperti dei dibattiti sulla “cultura della legalità”. Per ragioni di spazio, non è questa la sede per spiegare le ragioni di ciò.
Lo stato di totale anarchia in cui versa oggi la finanza globalizzata ha preso il nome di deregulation e costituisce uno degli effetti “imprevisti” – o fors’anche “perversi” – dell’istituzione della WTO, un’organizzazione-sistema riconducibile agli Stati Uniti dal momento che le Big Corporations americane non intendevano tollerare affatto ingerenze e controlli nelle proprie attività da parte degli Stati all’interno dei quali operavano. In ispecie, si tratta di grandi società multinazionali – vedansi, per esempio, la Pfizer, la DuPont o la Monsanto – che in realtà multinazionali non sono, in quanto vantano strettissimi seppure opachi legami con gli Usa medesimi, ove peraltro hanno le sedi legali (l’ingresso della Cina nella WTO ha poi ingenerato negli americani la sindrome di Tucidide, ma si tratta di un’altra storia). Detto altrimenti, i mercati finanziari intendono obbedire esclusivamente alle proprie dinamiche/leggi interne: in ciò sta l’essenza del turbo-capitalismo finanziario americano. L’imperativo è globalizzare i profitti.
Ritornando alla mafie, si può dire che ormai esse operano economicamente a livello globale godendo delle stesse libertà e delle medesime immunità di cui godono le suddette multinazionali, le grandi banche, i colossi che gestiscono i fondi di investimento, i signori dell’alta finanza, ecc.
Di conseguenza, indagare sui flussi di denaro prodotti e governati da Cosa nostra diventa oltremodo difficile, e in taluni casi persino infattibile.

Alla luce di quanto premesso, logica vuole che la cosiddetta – meglio ancora, la sedicente – cultura della legalità dovrebbe adesso assumere una postura assolutamente critica nei confronti della globalizzazione finanziaria, poiché essa costituisce il brodo di agar per le mafie 2.0. Infatti, sono proprio le dinamiche innescate dalla globalizzazione medesima – non ultimo il meccanismo delle cripto valute – a essere perfettamente funzionali agli interessi geoeconomicomici della grande criminalità organizzata. E non di certo soltanto di quella italiana.
Ma chi ha oggi il coraggio-possibilità di assumere la suddetta posizione critica? Chi si sente di combattere contro il capitalismo finanziario? Nessuno, poiché la globalizzazione ormai è un dogma, e tale resterà per molti anni a venire.
Purtroppo, il Marxismo è stato ormai soppiantato dal Marxismo critico elaborato sine studio ac ira dalla Scuola di Francoforte, definita il “Grande Hotel Abisso” dal filosofo marxista György Lukács, a mio giudizio uno dei più brillanti esegeti di Marx del Novecento.

Nell’attesa che l’improbabile possa accadere, accontentiamoci di compiere alcune oneste riflessioni sugli effetti e sulle ricadute sociali della cultura della legalità così come a tutt’oggi viene invocata e messa in atto. Celebrarla e quindi attribuirle risultati straordinari nella lotta alla mafia è stata la regola, anzi un postulato.
Dati alla mano, non si può – però – parlare di risultati eclatanti: le marce e i convegni non hanno fermato i mafiosi, gli investigatori non hanno ricevuto le risorse economiche sperate, e l’aura di mistero che ha avvolto alcune particolari, delicate indagini continua a incombere.
E dunque, con una buona dose di sano realismo (Lenin era solito dire che la Verità è il Reale) bisogna porsi tre domande.

La prima: perché tantissimi personaggi si sono fatti promotori e sponsor di tale cultura che, all’atto pratico, serviva a ben poco se non a nulla?
La seconda domanda contiene in sé, per certi versi, la risposta alla precedente: quali e quanti di costoro hanno tratto vantaggio dal culto della legalità che hanno devotamente praticato?
La terza: perché è stata enfatizzata la “lotta” alla mafia, evitando di “lottare” contro la onnipervasiva criminalità predatoria la quale costituisce ex se una vera e propria piaga sociale?

Per entrare nel vivo di questa mia “provocazione” è necessario precisare innanzi tutto cos’è veramente la legalità in punto di diritto. Anche se nessuno ne parla in ossequio al politicamente corretto, è bene ricordare che quello di legalità è un concetto considerato negativo dai giuristi, e più avanti ne esamineremo compiutamente le ragioni.
A onta della testé richiamata negatività, si è appropriata della parola “legalità” – ascrivendole però un significato totalmente diverso – quella pars politica che da sempre ama identificarsi con il Bene, peraltro felicissima di intestarsi in via esclusiva un’ennesima “crociata” contro il Male messo en forme di Nemico assoluto. Il meccanismo è abbastanza semplice: individuare una “buona causa” alla quale si deve aderire. Un Inimicus in senso schmittiano, lottando il quale la parte medesima può “definirsi politicamente”. Per essere più precisi, possiamo dire che la mafia serve ai cultori dell’antimafia affinché si possano definire politicamente: ancora una volta entra nel discorso il pensiero del filosofo del diritto Carl Schmitt (il rimando è a Le categorie del “politico”, vds. bibliografia).

Analogo bisogno di “definizione” non serve a chi è già istituzionalmente definito dalla divisa e dalla toga, e che ha come elemento supremo di “definizione metafisica” la propria morte. La morte – infatti – aleggia costantemente sui conflitti ingaggiati, sempre nel rispetto delle leggi repubblicane, dai servitori dello Stato chiamati a difendere l’ordine e la sicurezza pubblica, come definiti dall’art. 159, co. 2 d.lgs. 112/98 (ivi, la tutela della sicurzza delle Istituzioni, dei cittadini e dei loro beni). In altre parole, il suddetto bisogno politico di definizione non ha assolutamente nulla a che vedere con l’impegno profuso dagli Organi antimafia dello Stato, melius dalle Forze di polizia e dalla magistratura, le quali rimangono le protagoniste assolute dell’azione di contrasto alla mafia.

Vi sono stati anche degli esponenti della società civile uccisi dalla mafia. Ma costoro sono morti per avere obbedito kantianamente a un proprio imperativo categorico, o per coerenza con i princìpi della fede cristiana, o per non essersi piegati di fronte a precise “richieste” recapitate loro da un capomafia, o per avere fatto dei “nomi” sui quali bisognava tacere: non certo per la loro militanza in una delle tante associazioni fondate dai Theologi di questa drôle de religion che va sotto il nome di “cultura della legalità”.

Talché, a questo punto occorre necessariamente riprendere il celebre motto del giurista Alberico Gentili (1552-1608) – il solo cattolico ad aver insegnato nell’anglicana università di Oxford per due decenni – “Silete theologi in munere alieno” (nel caso di specie: tacete in relazione a quanto è di competenza degli investigatori).

La sola cosa veramente utile che ogni singolo individuo, raggiunta l’età della ragione, dovrebbe fare è quella di praticare e diffondere la cultura del contrasto della “omertà diffusa”. L’omertà diffusa è infatti il concime ideale per l’humus in cui vivono i capi e i gregari della mafia: le lunghe latitanze di Riina, Provenzano e Messina Denaro docunt. Per combattere l’omertà diffusa le associazioni non servono.

Immutato lo Angriffspunkt, lo schema di ingaggio parimenti schmittiano, delle suddette “crociate” dei Buoni: indignazione, mobilitazione e infine lotta, solo però dopo avere accertato con sicurezza che la mobilitazione era stata in grado di svuotare le fabbriche e le scuole onde riempire le piazze. Un déjà vu che olezza di primavere parigine e di autunni caldi italiani. Di fatto, però, non sono mai state poste in essere delle concrete azioni politico-culturali finalizzate a indurre l’esecutivo di turno a stanziare le risorse economiche necessarie a rendere credibile ed efficace l’azione di contrasto sviluppata dalla polizia e dalla magistratura, i soli attori sociali scesi utilmente in campo contro la mafia, lasciando sul terreno morti e feriti. Non mi stancherò mai di ripetere ciò, nel ricordo degli amici e colleghi che hanno sacrificato le loro vite.

Degnissimo intendimento quello di mobilitare la coscienza civile. Epperò un intendimento intrinsecamente sterile che è finito col rientrare nel paradigma della eterogenesi dei fini. Sciascia lo aveva intuito fin dal primo momento.

Mentre gli studenti scendevano in piazza o sfilavano per le strade (divertendosi), oppure stavano in classe a sentire il solito sermone sulla legalità (annoiandosi) tenuto dal magistrato o dal poliziotto di turno, la politica politicante continuava more solito a fare il proprio lavoro di sempre: proteggere i proprî santuari ovvero le gramsciane casematte del Potere: università, aziende ospedaliere, aziende pubbliche, società partecipate, ecc.; per non parlare poi della gestione di concorsi e promozioni, sempre protetta da un assordante, diffuso silenzio di stampo mafioso. Silenzio omertoso.

In compenso, l’attenzione era interamente rivolta alla mafia, come se anche la protezione di quelle casematte non fosse di per sé una declinazione della mafia.
Impietosa e illuminante, in proposito, l’analisi fatta da Ernesto Galli della Loggia in un editoriale intitolato Meno convegni, più azioni concrete. Troppa retorica e poca legalità, pubblicato dal Corriere della Sera nel lontano 22 dicembre 2013.

L’ “insospettabile” professor Galli, che è anche una firma di punta di via Solferino, inizia col parlare del clamoroso caso di due noti, infaticabili personaggi (un sindaco e una nota intellettuale) anti ‘ndrangheta, i cui intrallazzi vennero smascherati dalle indagini istituite a loro carico. E prosegue dicendo che entrambe le vicende rivelano “quel modo sterile e illusorio di fronteggiare la malavita e di gestirne ideologicamente il contrasto sociale, che da noi imperversa da anni sotto il nome di ‘cultura della legalità’. La quale, al dunque, si sostanzia (…) in convegni e in tavole rotonde, in oceani di chiacchiere di Autorità varie giunte con voli di Stato, (…) in compunte cronache dei tg regionali e in scolaresche precettate d’imperio ad ascoltare sproloqui (…) ovvero ospitate in costose carnevalate come la ‘Nave della Legalità’ organizzata dal ministro dell’Istruzione”. Galli della Loggia, prima di concludere questo scomodo pezzo ponendo in risalto le difficoltà di chi opera sul campo a proprio rischio e pericolo, precisa: “la precettistica buonista di nessun effetto pratico (…) permette a chiunque di esibire il proprio impegno politicamente corretto”.

La chiarezza del discorso di Ernesto Galli della Loggia non necessita di alcuna glossa. Pur nondimeno, vi è da riflettere sul senso delle parole “precettistica buonista”: mi permetto di associare a esse quanto ho supra affermato a proposito delle “crociate” del Bene contro il Male.

Come anticipato, la legalità esprime un concetto giuridico fortemente negativo in quanto rappresenta l’espressione, peraltro svincolata da qualsiasi contenuto materiale, del potere costituito (Schmitt). Talché essa diventa un pericoloso strumento di governo allorquando il potere assume la forma di una dittatura. Non a caso, di fronte alle richieste di democrazia, i dittatori, a prescindere dal colore politico, parlano della necessità di “debellare i terroristi e ripristinare la legalità”. Che però è la “loro” legalità.

In altri termini, la legalità viene imposta o, meglio ancora, rappresenta ex se l’espressione di un potere costituito (liberale, socialista, fascista, ecc.). Rivisitando le idee di Irti, si potrebbe dire che il suo fondamento è l’autorità,1 e dunque serve per ottenere obbedienza: infatti, dalla filosofia del diritto si sa che il valore di una norma sta nel suo farsi valere (e dunque nella legalità). In estrema sintesi, la legalità assomma la norma con la corcizione, facendosi vis fisica statuale.2

Secondo il giurista progressista Rawls e il sociologo Mearsheimer, il principio di legalità serve a una parte politica per “spostare” nel sistema giuridico la gestione di taluni problemi politici. La tesi è fondata, a prescindere dal fatto che i due intellettuali americani l’hanno formulata con lo sguardo rivolto al common law, che per loro è oltremodo familiare. In Italia questo spostamente di fatto avviene, ma non se ne deve parlare.

Al fine di contenere/mitigare gli effetti negativi della legalità, interviene il principio di costituzionalità, il quale con la legittimità forma una diade.
Il primo vincola il potere al rispetto del dettato costituzionale: in questo caso è la norma scritta a a rendere legittimo il potere (Weber).
Con la seconda – che è espressione del potere costituente (Schmitt) – viene indicata la subordinazione della validità della norma a un controllo esterno: pertanto, il suo fondamento è l’autonomia.
Alla luce di quanto precede, è evidente che, in punto di diritto, tanto la nozione di legalità, quanto quella di legittimità non si possono assolutamente richiamare a proposito della lotta alla mafia.

Probabilmente, qualcuno affetto da un deficit di cultura giuridica ha inteso chiamare “legalità” il rispetto della legge, giusto per semplificare il discorso politico. E questa soluzione ha poi finito per essere adottata in tutte le sedi nelle quali ha trovato cittadinanza esso discorso. In realtà, non esiste ontologicamente una cultura della legalità. A fortiori, non esistono una cultura della legalità avente per oggetto il diritto penale, una cultura della legalità riguardante il diritto civile, un’altra il diritto amministrativo, e così via.

Ritengo sia estremamente pericoloso dare l’impressione che per indurre al rispetto delle leggi della Stato bisogna sviluppare una cultura ad hoc. Le leggi si rispettano anche senza una retrostante cultura della legalità: la polizia e i processi servono esattamente a ottenere questo rispetto. In ispecie, se la legge penale non ammette ignoranza, salve rare eccezioni codificate, a maggior ragione non abbisogna di una cultura della legalità che le faccia da ancella.

Anzi, far passare l’idea della importanza della cosiddetta cultura della legalità costituisce proprio quella eterogenesi dei fini della quale si è detto: alle nuove generazioni bisogna invece dare cultura tout court ed esempi positivi. Tenere nelle scuole stucchevoli conferenze sulla mafia, e poi vedere gli studenti che ritornano a casa a bordo di motorini senza aver indossato il casco e senza rispettare il codice della strada, è il segnale di un duplice fallimento: fallimento (prevedibilissimo) della cultura della legalità, e fallimento dell’istituzione scolastica. E fors’anche della famiglia.

Giustamente, il filosofo Bérénice Levet, su Le Figarò del 12 settembre 2023, scrive che la scuola deve servire “a collegare e riattaccare il giovane in formazione alla civiltà particolare di cui è chiamato a diventare membro e cittadino”. Con un riferimento a de Musset, ella sottolinea che la scuola deve “riempire (…) un’anima vuota e annoiata”; e aggiunge che deve servire a coltivare l’arendtiana “intelligenza del cuore” (la traduzione è mia). Il che è ben diverso dall’incentrare il discorso pedagogico sui mafiosi e sulle loro scelleratezze, ancorché sotto gli occhi di tutti grazie alla pervasività dei media, una pervasività che produce paradossalmente assuefazione alla violenza. E quindi indifferenza.

Le immagini di morte trasmesse centinaia e centinaia di volte sono ormai divenute “neutre”: non scuotono più le coscienze. Se non prendiamo atto di queste dinamiche (perverse) della comunicazione, se polarizziamo la cultura dell’antimafia sulla consueta, stucchevole narrazione eroico-legalitaria che accompagna tali immagini, non ci renderemo mai conto di quanta verità vi sia nelle parole della Levet a proposito della educazione dei giovani.

Brecht sosteneva che sono beati i popoli che non hanno bisogno di eroi. Mi permetto di parafrasare questo assunto dicendo “beati gli studenti che non hanno bisogno dei professionisti dell’antimafia”, dal momento che le loro anime non sono né vuote, né annoiate, ed è stato loro insegnato a coltivare l’intelligenza del cuore.

Si è detto delle cause del sostanziale fallimento della cultura della legalità come è stata fin qui praticata, ossia quella che si potrebbe definire “classica”. Esaminiamo ora i veri benefici da essa scaturiti: troveremo così le risposte alle domande dianzi formulate.

I benefici si possono riscontrare nelle posizioni di rendita di cui hanno goduto e godono i cennati professionisti dell’antimafia, dei veri e proprî “imprenditori morali” (Becker) che spesso assumono le sembianze del Nemico brechtiano: “chi parla del nemico è lui stesso il nemico” (rinvio a quanto scritto da Galli a proposito dei due attivissimi esponenti dell’anti ‘ndrangheta finiti nella polvere, ai quali, nel tempo, se ne sono aggiunti tanti altri). La più squallida delle politiche dei due forni: ne riparleremo a breve.

Non è certo superfluo ricordare che, in opposizione ai maître à penser dell’antimafia, stanno persone che con grande senso civico, con grande amore per lo Stato e per le sue Istituzioni, dimostrando un’immensa pietas nei confronti dei caduti per mano di belve dalle sembianze umane, si sono battute e si battono – boot on the ground quasi fossero dei soldati – per denunciare le nefandezze ogni giorno perpetrate dalla criminalità: che sia predatoria od organizzata, poco importa loro. I riflettori e le passerelle non affascinano minimamente tali persone. Epperò costituiscono una minoranza, troppo spesso abbandonata a se stessa da quel medesimo Stato nel quale, pur nondimeno, credono profondamente. E non usano scintillanti “etichette” o policrome bandiere. Al più, si definiscono “comitati spontanei”, “comitati di quartiere”, e simili. Non vanno alla ricerca dei politici, ma si appellano alle pubbliche autorità cui è affidata la manutenzione di quell’essenziale bene comune chiamato sicurezza. E se del caso, si dedicano anche alla pulizia di parchi, o al ripristino di edifici da destinare all’aggregazione sociale: gesti concreti, ma di grande valenza simbolica. Interiorizzazione, forse inconsapevole, della teoria delle finestre rotte (broken windows theory) formulata da Wilson e Kelling.3

Di contro, pur senza nulla conoscere della grecità, i cennati professionisti dell’antimafia hanno fatto della cultura dell’antimafia una pessima copia dell’essenza della democrazia greca: l’accesso alla parola per fare diventare la parola stessa uno strumento politico. Un accesso che deve essere costantemente mediatizzato, e che apre la stura a innumerevoli manifestazioni-cloni, per le quali viene pretesa la presenza di magistrati, questori, prefetti, ufficiali dei carabinieri, sindaci con sciarpa ad armacollo, dirigenti scolastici, insegnanti con scolaresche al séguito, ecc. ecc.

E magari vengono istituiti dei premi intitolati a coloro i quali hanno veramente contrastato le mafie, perdendo poi la vita a causa del proprio impegno. E che sono tanti, non c’è che l’imbarazzo della scelta: la consegna di tali premi è il massimo degli effetti amplificatori della retorica dell’attivismo antimafia. Siffatti (pseudo) premi servono solo ad autolegittimare chi li istituisce: sono come quei necrologi il cui vero scopo e quello di ostentare la pregressa – ma non confermabile date le circostanze – vicinanza a un illustre defunto.

L’ “impegno culturale” contro la mafia è servito anche per fare carriera, per scalare i vertici di Enti pubblici e privati, per avere accesso diretto e immediato ai palazzi di giustizia, alle segreterie politiche, alle prefetture e alle questure. Nei casi limite, per ottenere financo delle scorte, lo status simbol per eccellenza. Una scorta non si nega a nessun autentico philosophe antimafia noto al grande pubblico.

Quelli che – come si è detto a proposito dei due forni – hanno fatto il doppio gioco, una volta smascherati e finiti nella polvere, non di rado hanno trascinato con sé qualche politico o qualche investigatore piuttosto “distratto”.
A prescindere da qualsivoglia risultato da essa prodotto, la tradizionale cultura dell’antimafia o della legalità è da relegare fra gli orpelli ideologici del Secolo breve.
Nel discorso pubblico, peraltro, la parola “mafia” è stata talmente abusata da perdere ogni valenza criminologica, talché è risultato oltremodo facile ascriverle una valenza tout court politica. All’origine di tale abuso è possibile rinvenire l’esigenza di semplificare la comunicazione mediatica (oltreché politica, cfr. supra).

Sopra si è parlato di “bisogno politico di definizione”: ebbene, a questo punto occorre riprendere e completare il discorso con l’ausilio della sociologia politica. Per ragioni storico-culturali, è stata la Sinistra (ma soprattutto il PCI) a intestarsi – dopo essersi precedentemente intestata in esclusiva la Resistenza – la lotta alla mafia. Una lotta alla quale era funzionale la “mobilitazione delle masse”. Dopodiché, la Sinistra medesima – ma non solo essa – si è impossessata del concetto di “legalità” e, come si è visto, ne ha pervertito il significato ad usum Delphini. Di contro, non intese sviluppare una cultura parallela rivolta al contrasto della microcriminalità, dal momento che quest’ultima veniva considerata il portato delle ingiustizie sociali, della emarginazione, della mancanza del lavoro, ecc. Talché, fu la Destra dell’ordine a occupare questo vuoto, facendosi carico delle campagne volte a mettere in risalto l’estrema pericolosità del crimine predatorio, e il consequenziale degrado della sicurezza urbana (Battistelli). E a mobilitarsi in tal senso furono la piccola e la media borghesia (che – però – non andavano mai a votare quella Destra).

In ossequio al principio di realtà, non si può negare che la magistratura ha agito con estremo rigore contro la mafia, giungendo persino a “creare” un nuovo reato, il concorso esterno in associazione di tipo mafioso. Per converso, non pari fermezza e rigore ha dimostrato (e dimostra) nei confronti della microcriminalità o criminalità predatoria, che pure rappresenta l’esercito di riserva della mafia, giusto per parafrasare il Gigante di Treviri.

Nel tempo, l’uso politico-giudiziario della mafia è diventato perfino strumentale allo scontro politico-istituzionale ai più alti livelli (il riferimento è alla cosiddetta trattativa Stato-mafia e alle indagini sulla Fininvest). Ed è stato proprio siffatto uso (spregiudicato) a costituire la fonte di quelle ambiguità/distorsioni della verità chiamate tanto infelicemente, quanto impropriamente “misteri di mafia”. A mio avviso, per tentare di comprendere le dinamiche di tali ambiguità, si potrebbe – il condizionale è d’obbligo – prendere a prestito lo “schema politico” rappresentato da Hayek con un triangolo equilatero, e quindi sostituire i tre “soggetti” da egli posti ai tre angoli: così – secondo lo schema da me rivisitato – al vertice si colloca la mafia, in basso a destra la società cosiddetta civile e in basso a sinistra la politica.

L’aver parlato delle oggettive, rilevanti difficoltà investigative nel tracciare i flussi di denaro immessi dalle mafie nei circuiti finanziari globali, non significa affatto che debbano cessare le indagini a carico della mafia. Non potrei mai neanche lontanemente pensare una cosa simile. Sarebbe come rinnegare il mio passato.

Epperò, non uso volutamente l’espressione “lotta alla mafia” perché tale espressione è stata caricata di troppe ambiguità, anzi essa è finita col rappresentare il portato di pericolose stratificazioni politico-ideologiche. Lo Stato di diritto non è un “lottatore” e dunque non lotta, bensì afferma il primato della legge servendosi degli apparati investigativi e. In estrema sintesi, contrasta il crimine, non lo lotta. La nozione di lotta – giova ripeterlo – attiene alla categoria schmittiana del politico, ossia alla designazione dell’Inimicus; in ispecie, essa rappresenta la terza fase del cennato schema politico-ideologico: indignazione, mobilitazione e, appunto, lotta.

Invece, lo speculare “schema” statuale è: notitia criminis, indagini preliminari, processo.
Detto ciò, mi sento di potere asserire che l’odierna attività di contrasto non può che orientarsi su due livelli.
In primo luogo, occorre indagare sulle fonti/modalità di produzione illecita del denaro in Italia, nonché sui soggetti che possono concorrere, a vario titolo, alla suddetta produzione, ancorché non organici alla mafia medesima, quali ad esempio gli amministratori pubblici, i manager di aziende tanto pubbliche quanto private, ecc. Non ultimi i politici rampanti.

Fermo restando che non è certo questa la sede nella quale parlare compiutamente di indagini antimafia, occorre stigmatizzare che l’acquisizione dei grandi appalti nonché dei sub-appalti ha rappresentato – e continua a rappresentare – l’obiettivo primario dei sodalizi mafiosi.

In secondo luogo, occorre intervenire su quegli esponenti della criminalità generalista che costituiscono gli “interlocutori” della criminalità di stampo mafioso: vi è infatti un’area in cui sono estremamente labili i confini tra la prima e la seconda (vedasi l’affidamento in concessione tanto dello spaccio, quanto delle estorsioni al dettaglio, alla cosiddetta delinquenza di quartiere). Nulla di nuovo, se si pensa che in passato venivano tenute sotto strettissima osservazione le “giovani leve” della microcriminalità, posto che il loro cursus honorum avrebbe potuto trovare séguito nei ranghi della mafia.

È a questo punto che deve entrare in gioco una nuova, inedita, pragmatica cultura antimafia, ben diversa dal tradizionale “culto della legalità” fin qui praticato all’insegna del politicamente corretto.

Si tratta di favorire la creazione di una rete virtuosa, i cui “nodi” sono costituiti dai suddetti comitati spontanei formati da persone che hanno a cuore esclusivamente il bene comune, o meglio temono per la tenuta della propria communitas devastata dalla criminalità. Una criminalità che, pur senza essere di stampo mafioso, è di fatto asservita agli interessi specifici delle sovrastanti mafie. Si tratta di comunità poste ai margini delle aree residenziali, o meglio di zone urbane dimenticate, nelle quali non mettono mai piede gli amministratori locali, gli assistenti sociali e la polizia urbana. E neppure vengono tenute sotto osservazione dal poliziotto o dal carabiniere di quartiere (una presenza simbolica, dal momento che siffatta declinazione della polizia di sicurezza non ha sortito i risultati sperati).

Una precisazione doverosa, anche se per alcuni potrebbe suonare politicamente scorretta. Solo in epoca relativamente recente ci si è accorti della presenza di viepiù numerosi immigrati clandestini che rappresentano il trait d’union fra la menzionata criminalità asservita alle mafie nostrane e la parimenti menzionata mafia nigeriana. La capacità di intimidazione, gli immensi guadagni e la ramificazione di quest’ultima mafia su tutto il territorio europeo non costituiscono oggi un mistero né per gli investigatori, né per i media (come ebbi a documentare nel mio Stranieri e barbari, fu però lo Fbi a informare le polizie vetero continentali dell’ampiezza della suddetta ramificazione nonché dell’entità dei flussi di denaro verso gli Stati Uniti e la Nigeria).

Creata la rete virtuosa, bisognerebbe poi sostenerla fino al punto da inserirne d’ufficio i rappresentati nei consigli di quartiere e in quelli comunali, ovviamente senza diritto di voto, ma di veto, a fronte di scelte che potrebbero incidere negativamente sulla qualità della sicurezza. In aggiunta, spetterebbe loro il potere di proporre soluzioni atte a incidere positivamente sulla sicurezza medesima. È superfluo ricordare che la tutela della sicurezza urbana rientra fra le competenze dei sindaci ai sensi della l. 24 luglio 2008, n. 125 e del successivo d.m. 5 agosto 2018.4

In breve, la sterile cultura della legalità deve cedere il passo alla cultura della prevenzione situazionale: una cultura “focalizzata” sulla presenza nei territori di quelle strutture criminali – massime le cosiddette bande giovanili – che rappresentano l’ “anticamera della mafia” e che ormai agiscono praticamente indisturbate sotto gli occhi di tutti.

Alla suddetta cultura della prevenzione situazionale si può altresì innnestare in via estensiva il principio di sussidiarietà, sulla scorta delle esperienze maturate in tal senso a Caivano, ma non solo. Se lo si vuole realmente, esiste la possibilità di creare delle best practices che nulla hanno a che vedere con le tradizionali iniziative antimafia: quelle iniziative inutili, vuote e retoriche che il professore emerito Ernesto Galli della Loggia, uno storico assolutamente impolitico, ha efficacemente liquidato.

* Corrado Fatuzzo osserva, riflette, studia, scrive. È autore di varî saggi, tra i quali Che guerra fa. L’Isis e i conflitti armati del XXI secolo tra sociologia e diritto. Per i tipi dell’Editrice Algra ha pubblicato Compendio di balistica, Esercizi di arte dell’implicito, Guerra & Pace, Stranieri e barbari, Harmagedón. Il Covid-19 metterà fine alla globalizzazione? In Italia ha già infettato la democrazia, Geopolitica dei pensieri perversi. Inoltre ha curato il volume La certificazione dei requisiti psico-fisici in materia di porto d’armi.

NOTE

  1. La parola “autorità” deriva dal latino auctoritas, che a sua volta discende dal verbo augēre che fra i varî significati ha quello di “fare crescere”. Nell’Antica Roma l’auctoritas assunse una valenza giuridica a fronte dell’ampiezza dei poteri concessi dal Senato ad Augusto, un’ampiezza mai prima di allora accordata a un imperatore, ma che in sé conteneva – proprio per questo – il germe della degenerazione. In epoca medievale, il sovrano esercitava il potere assoluto sul proprio territorio, ossia sulla terra, con la forza, “piegando” (anche: atterrando) e dunque terrorizzando i sudditi: il terrore era lo “spaventapasseri del Re”. Talché, originariamente il terrorismo rappresentava la forma di governo sulla terra: “terrorista” poteva essere soltanto lo Stato, e “banditi” erano coloro i quali gli si opponevano (e quindi venivano indicati nei bandi): solo in séguito il terrorismo medesimo si fece guerra asimmetrica contro il potere sovrano – o potere costituito – allo scopo di sostituirsi a esso (in tal senso, anche le mafie possono essere considerate delle organizzazioni terroriste). Intorno al 1275 il termine “autorità” entrò a far parte del lessico italiano nell’accezione di “legittimità”. Ma tutto cambiò con la ripresa degli studi sulla Dogmatica e, in ultimo, con l’affermazione della teoria generale del Diritto (cfr. nota successiva). Con Marx l’autorità divenne sinonimo di potere oppressivo esercitato nei confronti del proletariato.
  2. Questa analisi della nozione di legalità è stata formulata sulla scorta della Allgemeine Rechtslehere, o teoria generale del Diritto, che ha per riferimento il rapporto Nomos-Lex. In particolare, essa teoria è stata ispirata dalla Sofistica, i cui seguaci si erano a lungo dedicati allo studio dei dògmata pòleos, dando così vita alla cosiddetta Dogmatica. La norma è solo se stessa – né buona né cattiva – nella sua capacità di ottenere obbedienza: ergo il suo valore si fonda sul farsi valere. E dunque, il valore altro non è se non la legalità (Cacciari – Irti).
  3. Secondo questa teoria, se non si pone immediatamente rimedio alle conseguenze di un atto vandalico (quale ad esempio la rottura dei vetri di una finestra, da cui il nome della teoria medesima), tutta una serie di gesti analoghi (frutto dell’emulazione negativa) ai danni dell’arredo urbano e/o dei beni privati, produrrà una situazione di degrado ambientale in continuo aumento. Talché si avrà anche la compromissione dell’ordine e della sicurezza pubblica, in quanto le aree degradate sono i fortilizi della criminalità tanto comune, quanto organizzata.
  4. L’art. 54 nel novellato ex art. 6 l. 125 cit., oltre che a disciplinare le attribuzioni sindacali in materia di sicurezza, prevede il potere di adottare ordinanze contingibili e urgenti al fine di prevenire ed eliminare quei pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana; il parimenti novellato art. 117, co. 2º lett. h Cost. stabilisce le competenze e le attribuzioni sindacali in materia di polizia amministrativa locale (Fatuzzo).

 

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