Dalla mafia degli appalti alla mafia 2.0

Dalla mafia degli appalti alla mafia 2.0

Elaborare l’excursus dell’evoluzione della mafia in coerenza con il tema di questa mia relazione (“Dalla mafia degli appalti alla mafia 2.0”) rischierebbe di essere un tentativo velleitario e riduttivo perché la mafia ha radici antiche e, purtroppo, ha saputo adeguarsi al progresso sociale, economico e finanziario con una capacità e velocità di adattamento che solo poche imprese “pulite” (non tutte) hanno avuto in pari misura. Di certo non hanno avuto pari capacità di evoluzione ed adattamento le istituzioni pubbliche che arrancano in affanno nei confronti di un mondo sempre più globalizzato e digitalizzato.

Nella sua relazione il dott. Corrado Fatuzzo ha evidenziato alcuni temi e problematiche imprescindibili per la comprensione del fenomeno mafia 2.0, così come l’analisi del nuovo codice degli appalti fatta dal prof. Maurizio Caserta ed i puntuali rilievi del sindaco Marco Rubino ci offrono interessanti spunti di riflessione per capire cosa sta accadendo in questa nostra società sempre più complessa e difficile da decifrare. Mi avvarrò del contributo degli altri relatori per trattare il tema che mi è stato affidato.

Come è stato detto (cfr. relazione Fatuzzo) le scelte terminologiche sono funzionali alla esatta comprensione del problema perché parlare di Istituzioni che lottano contro la mafia è un’inesattezza che può determinare scelte errate che potrebbero addirittura produrre effetti contrari a quelli perseguiti (si pensi alla introduzione di norme limitative della libertà personale di tutti al fine di tentare di limitare la libertà di azione delle organizzazioni criminali, che però non si pongono il problema di rispettare tali norme). Le Istituzioni (Governo, organismi di rappresentanza democratica, Magistratura e FF.OO.) hanno infatti il compito di garantire il corretto svolgimento della vita sociale ed economica di una comunità secondo le regole “legittimamente” adottate ed hanno quindi e più esattamente il compito di contrastare chiunque non operi nel rispetto di tali regole, prime fra tutte le organizzazioni criminali, per garantire il corretto sviluppo della vita di relazione sociale e lo svolgimento delle attività economiche.

Cosa vuol dire regole/norme legittimamente adottate?

Volgendo un rapido sguardo alla storia dell’umanità non possiamo non prendere atto (vi prego di accettare le limitazioni di un ragionamento necessariamente fatto per sommi capi ed all’“ingrosso”) che l’evoluzione delle forme di Stato e di Governo ha preso le mosse da forme assolutistiche (addirittura tribali e patriarcali) per approdare, ma quasi soltanto nel mondo occidentale, a quella che noi oggi chiamiamo democrazia rappresentativa che, appunto, è (o dovrebbe essere) caratterizzata da assemblee elettive di rappresentanti liberamente eletti dai cittadini, assemblee a cui è devoluto il potere di emanare “legittimamente” le norme regolatrici della comunità che le esprime e dove la legittimità deriva dal fatto che tali assemblee dovrebbero essere la rappresentanza istituzionale della volontà dei cittadini (cfr. art. 1 della Costituzione della Repubblica Italiana). In altre parole, e per quanto qui rileva, siamo passati da norme autoritativamente imposte da chi deteneva un potere assoluto a norme adottate secondo procedimenti garantiti costituzionalmente da organi collegiali rappresentativi e, quindi, democraticamente legittimati. L’assunto, evidentemente, non vale per i regimi autocratici e dittatoriali.

Quanto detto al lordo delle critiche cui possono essere sottoposti gli attuali sistemi di democrazia rappresentativa perché non è questa la sede per esaminare i limiti, le imperfezioni e le deviazioni che affliggono anche i sistemi dei Paesi che si suole definire di “democrazia avanzata”, atteso che, per esempio, i sistemi di rappresentanza democratica sono fortemente influenzati dalle leggi elettorali adottate e dalla necessità di coniugare una rappresentanza democratica “plurale” con la governabilità del sistema. Ma questo è, per l’appunto, un altro tema.

Ciò posto, la dicotomia evidenziata dal dott. Fatuzzo tra legalità e legittimità risulta forse meglio chiarita nel senso che parlare di legalità (rispetto formale e sostanziale delle norme) ha senso solo se le norme di riferimento sono state “legittimamente” adottate. Si può, infatti, parlare di legalità anche nel pretendere il rispetto di norme adottate da regimi autoritari e/o dittatoriali che, però, non sono legittime in quanto autoreferenziale portato di chi detiene il potere senza legittimazione popolare. Si può, pertanto, arrivare ad affermare che la legittimità di una norma è autonomamente idonea a riconoscerne la validità, mentre la legalità non derivata dalla legittimità diventa la negazione di se stessa e quindi un ossimoro.

Ecco perché non è corretto affermare che lo Stato e le Istituzioni democratiche hanno lo scopo di lottare contro la mafia (concetto mutuato da quello di conflitto/guerra dove si confrontano pariteticamente due soggetti), ma devono invece contrastarla da un lato per affermare il primato delle leggi “legittimamente” adottate e dall’altro per ribadire che la mafia non è un “altro” Stato contro cui si combatte, ma è solo un’associazione criminale che vuole operare, più che contro, fuori dalle regole della Stato e che invece deve essere sottoposta ad esse.

Fatta questa premessa e per tentare di capire ciò di cui in questa sede vogliamo parlare, va detto anche che il passaggio dalla mafia degli appalti a quella 2.0 tecnologica, finanziaria e globalizzata rischierebbe di offrire uno spaccato limitato della problematica se non si risale alle origini del fenomeno mafioso.

La mafia come fino ad oggi l’abbiamo intesa nasce, infatti, nel XIX secolo quando la gente di Sicilia era sottomessa a dominazioni che succedevano l’una all’altra e tutte erano caratterizzate da una rapacità di risorse e libertà che le rendevano una uguale all’altra. Alle popolazioni prevalentemente povere e rurali del tempo non veniva lasciato nemmeno l’indispensabile per sopravvivere e le stesse erano costrette ad industriarsi (famosa la metafora della giara per metà riempita d’acqua e per metà d’olio che, stando in superficie, nascondeva l’acqua sottostante per ingannare gli esattori che venivano a prelevarle) per, appunto, sopravvivere in condizioni di estrema povertà. E’ in questo contesto che nascono le prime aggregazioni clandestine di difesa delle popolazioni rurali e che da subito godono del consenso e della simpatia dei “tutelati” perché li difendevano da dominazioni crudeli e vessatorie che, però, erano legali, secondo il sopra esaminato concetto di legalità, anche se non legittime. L’embrione mafioso si forma cioè, quasi paradossalmente, per difendere i siciliani poveri e sottomessi e si atteggia quasi come quella che oggi potremmo definire una società si mutuo soccorso. Tuttavia, contrastando il potere legale, la mafia originaria si presenta geneticamente come antitesi al potere legale e, cioè, come un antistato profondamente radicato nel territorio. Una tale funzione della mafia originaria richiedeva, in tutta evidenza, un profondo radicamento sul territorio che, per le connotazioni sociali dell’epoca, non poteva prescindere da forti legami di sangue, gli unici a poter garantire quella omertà che poneva garantire agli adepti di non essere denunciati ai rappresentanti del potere costituito.

L’originario radicamento sul territorio è alla base della evoluzione successiva (anche qui mi si perdonerà la sommarietà del ragionamento e l’omissione dell’analisi dei rapporti tra la mafia e la nobiltà siciliana del tempo) che porta la mafia ad avere un ruolo di rilievo anche nel processo di unificazione dell’Italia prima e nelle vicende che accompagnarono lo sbarco dei cosiddetti “alleati” alla fine della seconda guerra mondiale. Con un potere centrale distante (quello sabaudo) e poi nel vuoto di potere determinato dalla caduta del fascismo la mafia ha di fatto effettuato i primi tentativi di legittimare (non certamente secondo i meccanismi della democrazia rappresentativa e con l’attiva complicità di quel che restava della nobiltà siciliana) il proprio potere sul territorio comprendendo in anticipo che un sistema socio-economico all’epoca indissolubilmente legato e dipendente dal territorio sarebbe stato di fatto governato (con tutte le utilità conseguenti) da chi avrebbe avuto il controllo del territorio medesimo. Non è stato quindi un caso che in questo tentato percorso di autolegittimazione nel contesto delle bande mafiose si siano sviluppati anche i fenomeni del “brigantaggio” come embrionali tentativi di movimenti autonomisti.

L’avvento dello Stato costituzionale ha rischiato però di compromettere l’assetto preconizzato dai mafiosi perché sempre più frequentemente sono state adottate norme “legittime” a tutela dei diritti dei cittadini e che certamente non potevano avallare un sistema di perpetuazione di quello che era diventato un nuovo potere assoluto autoreferenziale ed autoritario che si alimentava di prevaricazioni e rispetto imposti e con nuovi “oboli” che lo dovevano mantenere. Da qui i prelievi forzosi (estorsioni) di ricchezza e l’esercizio di tutte quelle attività che garantiscono rendite di posizioni ingiustificate (dalla gestione del credito ad usura alla “protezione” offerta in cambio del pizzo). Ma l’evoluzione dei costumi sociali ha poi posto nuovi problemi per il controllo del territorio in quanto nuove attività lucrose si sono via via fatte strada (la prostituzione che da mezzo di sopravvivenza è diventata un vero e proprio affare) ed è cominciata ad emergere anche la microcriminalità come attività di rapido e facile approvvigionamento di ricchezza, per cui la mafia si è occupata di gestire lo sfruttamento della prostituzione e di “controllare” la microcriminalità da un lato per non compromettere il controllo del territorio e dall’altro per monitorare le nuove leve alle quali attingere per l’esercito dei soldati al servizio dei boss.

Il boom economico degli anni ’60 del secolo scorso, accompagnato da un impetuoso sviluppo industriale nel nord del Paese e dallo sviluppo del settore edilizio e della parallela cantierizzazione di opere pubbliche, ha ancora una volta disegnato nuovi scenari per la mafia che ha scoperto nuovi ambiti nei quali poter investire gli enormi guadagni della gestione dei proventi dell’attività criminale sul territorio in nuovi settori con ampi margini di guadagni che avrebbero addirittura potuto essere conseguiti in circuiti “legali” (ancora una volta l’ossimoro della legalità) ed è stato in questo contesto che è stata avviata l’“occupazione” e/o la creazione delle imprese di movimento terra che stavano cambiando l’orografia delle nostre campagne. Per fare questo ed assicurarsi i proventi incalcolabili della nuova attività era, però, necessario assicurarsi due cose: l’eliminazione della concorrenza e la complicità della politica. Entrambi gli scopi raggiunti grazie al controllo del territorio ed alle milizie mafiose l’uno con la “persuasione” delle potenziali imprese concorrenti a farsi da parte o a cedere l’attività e l’altro con una capillare organizzazione del voto che, in regime di proporzionale e preferenza multipla, assicurava l’elezione di esponenti politici “amici” che, devolvendo a magistratura e FF.OO. la formale azione di contrasto all’illegalità, si ritenevano legittimati a chiudere entrambi gli occhi, quando non erano oggettivamente collusi o organici con le associazioni criminali, di fronte a fenomeni di evidente infiltrazione mafiosa tanto nel settore delle concessioni edificatorie quanto negli appalti per le opere pubbliche.

Erano i tempi (anni ’60 e in parte ’70 del secolo scorso) di una mafia che diventava sempre meno rurale e più attenta agli affari che sempre presupponevano, però, il controllo del territorio, ma era ancora una mafia che (memore forse della sua genesi di antistato e, quindi, di Stato alternativo) aveva un “codice”, si opponeva all’inizio alla diffusione della droga nelle nostre strade ed aveva alcuni santuari inviolabili nelle donne e nei bambini). Sappiamo tutti come è andata dopo quando il commercio della droga è diventato forse il più grande affare mai visto al mondo e la globalizzazione ha fatto cadere i confini per i capitali enormi che nella vorticosa circolazione di fatto si auto ripuliscono rendendo difficile individuare la fonte di questo enorme flusso di ricchezza.

Gli enormi flussi finanziari hanno fatto mutare pelle alla mafia che non può e non vuole perdere il controllo del territorio sia perché le attività illecite esercitate sullo stesso (ancorché diventate economicamente meno rilevanti rispetto all’enormità degli affari finanziari, fatta eccezione per il commercio di stupefacenti) consentono la selezione dei nuovi adepti, che con tali proventi si autofinanziano, ed impediscono che “altri” possano partire da lì per soppiantare chi in questa fase sta ai vertici dell’organizzazione e sia perché è controllando il territorio che ancora oggi si può concorrere in parte alla scelta della rappresentanza politica con tutto ciò che ne consegue.

Una nuova tipologia di attività fortemente ed indissolubilmente legata al territorio nonché caratterizzata da flussi enormi di denaro e profitti è quella della gestione del ciclo dello smaltimento dei rifiuti e non è quindi un caso, per una mafia che resta sempre attenta al controllo del territorio, che tale ciclo, stando a quanto è emerso dalle indagini delle Procure della Repubblica di tutta la Sicilia, sia saldamente in mano alle associazioni mafiose. Ed è in questo ambito che il mantenimento dello stretto collegamento con la rappresentanza politica ha manifestato tutta la sua valenza, atteso che, pur nella consapevolezza della gestione mafiosa delle discariche, in ambito regionale non è mai mancato l’assenso all’apertura di nuove discariche o all’ampliamento di quelle esistenti, di fatto vanificando ogni tentativo di realizzazione di termovalorizzatori che, dovendo essere gestiti da società spesso pubblico-private, avrebbero fatto scemare il controllo mafioso sul ciclo di smaltimento dei rifiuti. E dove non è stata la rappresentanza politica a favorire di fatto gli interessi mafiosi nel settore sono stati solerti funzionari pubblici (nell’ARPA e negli organismi burocratici regionali) che, presumibilmente, sono stati prima “ammorbiditi” ed hanno sempre giustificato nuove autorizzazioni ed ampliamenti con lo stesso argomento usato dai politici: una apodittica e non meglio giustificata “emergenza”. E, si sa!, in nome dell’emergenza in Italia, specie in Sicilia, si fa passare quasi tutto.

La mafia degli appalti (prima evoluzione moderna della già mafia rurale) è oggi titolare di un volume di affari comparabile al bilancio di uno Stato ed è pertanto proiettata verso un’attività di reinvestimento transnazionale di enormi capitali (gli ordini di grandezza miliardari sono tali da poter mettere in difficoltà, appunto, molti Stati) al pari di molte multinazionali che attraverso un sofisticato sistema di delocalizzazione riescono persino a sfuggire ai sistemi fiscali dei singoli Stati all’interno dei quali però operano in mille modi ed oggi anche attraverso il web. L’intuizione di Giovanni Falcone (“segui il denaro”) si dimostra di sempre più difficile attuazione in un mondo nel quale i flussi finanziari non conoscono confini nazionali e/o barriere doganali e circolano con una velocità inimmaginabile, atteso che la velocità di circolazione non solo rende più difficile tracciare il percorso dei capitali, ma trova in se stessa un incremento di redditività (si dice che la velocità di circolazione costituisce un fattore di moltiplicazione dei capitali investiti). La mafia è diventata anche una holding finanziaria che spesso reinveste in attività lecite in tutto il mondo e nel momento in cui i capitali vengono immessi in un circuito finanziario lecito diventa difficile monitorarli e se ne perdono spesso le tracce.

E’ allora impossibile contrastare la mafia in una prospettiva di legalità legittima?

Mi azzardo a dire di no!

E non per una mal riposta speranza, ma perché un’esatta conoscenza del fenomeno può servirci per approntare le adeguate contromisure.

Ho avuto modo in più punti di evidenziare come l’evoluzione delle attività della mafia non può, nonostante tutto, prescindere dal controllo del territorio e questo, se può essere un suo punto di forza, è anche e chiaramente un suo punto debole.

Recidere il legame della mafia col territorio dovrebbe essere un primo passo per prosciugare la fonte dei suoi guadagni, ma, soprattutto, del suo potere. Nello stesso momento in cui i cittadini di un determinato territorio “sentono” di non dover necessariamente subire il potere delle cosche da un lato saranno meno accondiscendenti nell’accettare il potere e le prevaricazioni dei mafiosi e dall’altro, diminuendo il rischio di sovraesporsi, diventeranno più collaborativi nei confronti dello Stato e dei suoi rappresentanti. Inoltre il prosciugamento della fonte di guadagno dei reati di strada lascerebbe senza risorse la manovalanza che tendenzialmente potrebbe disperdersi, anziché restare forza di arruolamento.

In questa prospettiva l’interessante esperienza, per altro ancora in corso, di Caivano è la plastica dimostrazione che quando lo Stato si riappropria del controllo del territorio diventa più facile smantellare il sistema di potere mafioso e prosciugare la fonte economica della supremazia mafiosa, come dimostrano i ritrovamenti di veri e propri arsenali di armi e le grandi quantità di droga con le quali la manovalanza mafiosa si procaccia sulle strade ingenti guadagni.

Per quanto non più del tutto monopolizzato (i piccoli appalti non sembrano più di grande interesse per la mafia), il settore degli appalti resta un ambito di attenzione delle organizzazioni criminali per due motivi: perché nella realizzazione di grandi opere i guadagni sono ancora importanti e perché nella gestione degli appalti si finisce col gestire commesse per le ditte che operano sul territorio ed il mercato del lavoro in aree, penso soprattutto al meridione, dove le piccole imprese operano spesso con margini di guadagno bassi ed i livelli occupazionali sono altrettanto bassi. E’ di tutta evidenza che offrire commesse e posti di lavoro rappresenta da un lato manifestazione di un potere concreto, che dovrebbe spettare allo Stato o dallo stesso essere garantito, e dall’altro il mezzo più efficace per acquisire, se non il consenso, quanto meno tolleranza ed accettazione di uno status delle cose che non viene percepito come immediatamente lesivo degli interessi e della libertà dei singoli cittadini. Anzi!

Intervenire nella disciplina degli appalti ha quindi un senso non solo per prevenire e contrastare percorsi corruttivi, ma anche, ancora una volta, per tentare di prosciugare all’origine le fonti di finanziamento della mafia e delle altre organizzazioni criminali.

In questo contesto strumenti come il nuovo codice degli appalti possono, perfezionati per quanto si rivelerà necessario, contribuire alla bonifica del settore.

Contrariamente a quanto, per mera speculazione politica, è stato sostenuto nel corso dell’approvazione del nuovo codice, la velocità delle procedure di aggiudicazione e l’innalzamento della soglia degli affidamenti diretti, oltre che ad adeguare l’Italia al resto dell’Europa, introducono una inevitabile trasparenza derivante dalla diretta imputabilità delle scelte al soggetto e/o alla stazione appaltante e, conseguentemente, introducono anche un principio di responsabilità in quanto è ben individuato il centro decisionale e le eventuali irregolarità nelle gare sono facilmente imputabili. In altre parole, si può finalmente sapere con immediatezza chi fa che cosa.

Le procedure commissariali che hanno accompagnato l’urgente realizzazione di grandi opere (si pensi per esempio al nuovo ponte di Genova che ha sostituito il ponte Morandi) dimostrano che non risponde al vero l’assunto secondo il quale la semplificazione delle procedure rende le stesse meno controllate e, quindi più permeabili, perché è invece vero che è in regime di procedure complesse e temporalmente indefinite che si sono sviluppati fenomeni di corruzione dei funzionari della p.a. che gestivano “discrezionalmente” (sic!) i tempi degli adempimenti burocratici ed appalti “truccati” non solo da parte della componente politica e/o amministrativa della p.a. con le varie metodiche riconducibili alla fattispecie della turbativa d’asta, ma anche attraverso l’attività “persuasiva” delle organizzazioni criminali che otteneva la “spontanea” (sic!) rinuncia delle aziende sane alla partecipazione alle gare.

Se alla semplificazione delle procedure, con conseguente accelerazione dei tempi di aggiudicazione, viene affiancata una normativa ancora più stringente in termini di individuazione preventiva dei responsabili il nuovo codice degli appalti può rivelarsi anche un efficace strumento di contrasto alle infiltrazioni criminali nelle gare di appalto ed alla loro manipolazione, atteso che è stato proprio nella molteplicità dei passaggi burocratici, nel conseguente allungamento indefinito dei tempi delle procedure e nella conseguente diluizione delle responsabilità che si è annidato il vulnus del precedente sistema.

Resta comunque, fermo, a mio avviso, che se non si elimina in radice il meccanismo dei subappalti (sostituendolo in ipotesi con le associazioni di imprese dichiarate preventivamente) sarà difficile azzerare del tutto i meccanismi corruttivi negli appalti e le infiltrazioni delle imprese mafiose a valle dell’aggiudicazione dell’appalto. Nel recepire il nuovo codice degli appalti la Regione Siciliana ha introdotto una norma che impone all’appaltatore di dichiarare preventivamente a chi eventualmente concederà il subappalto nei settori che non può trattare direttamente. E’ un primo passo, ma a mio avviso non è sufficiente perché l’effetto potrebbe essere solo quello di “anticipare” la programmazione della “gestione” dell’appalto con la individuazione dei possibili subappaltatori mentre le esigenze di trasparenza imporrebbero che già in fase di aggiudicazione si conoscano tutti i soggetti che contribuiranno all’esecuzione dei lavori oggetto dell’appalto.

La nuova mafia o, come diventa abituale definirla, la mafia 2.0 ha inoltre affinato quella che è divenuta una vera e propria specializzazione nel settore finanziario e ciò non solo perfezionando il meccanismo di reinvestimento delle enormi risorse finanziarie di cui dispone nel circuito finanziario mondiale, ma spesso divenendo essa stessa soggetto finanziario che opera nella gestione del credito in senso stretto e della messa a disposizione delle risorse finanziarie reali e virtuali nel circuito del business internazionale.

Credo non sia sfuggito a nessuno che studia il fenomeno che accanto ai tradizionali istituti di credito da tempo operanti sul mercato interno ed internazionale ci sia stata una fioritura di nuove banche ed istituti finanziari che spesso annoverano una ridotta dotazione di “sportelli” fisici sul territorio ed operano soprattutto via web e di banche che operano addirittura esclusivamente nel web.

Bene! Chi oggi può dire di essere in grado di monitorare efficacemente a chi fanno “effettivamente” riferimento i vari componenti dei consigli di amministrazione degli istituti bancari o finanziari e chi sta effettivamente dietro alle tante banche che operano prevalentemente nel web. Né si può sostenere che i controlli bancari imposti dalla Banca d’Italia e dalla BCE siano succedanei ad una indagine sull’“anagrafe” dei soggetti che operano nei settori del credito anche perché la globalizzazione ha di fatto dato luogo ad una “contaminazione” anche con potentati economici (e non solo economici) internazionali. Chi può dire oggi se gli enormi flussi finanziari e conseguenti investimenti nel settore economico produttivo, ma anche nel settore degli istituti finanziari, non provengano dalla mafia italoamericana piuttosto che dalla triade cinese o dalla yacuza giapponese o da reciproche convenienti triangolazioni con le mafie locali?

Non ho una risposta risolutiva per questo enorme problema (non possiedo, purtroppo, doti divinatorie), ma mi interrogo su una possibilità: non è che l’illuminante indicazione di Giovanni Falcone “segui i soldi” per contrastare la mafia intercettandone gli enormi utili economici dalla stessa perseguiti e così rendendo inutile la sua attività non deve invece diventare “individua la fonte dei soldi” prima di consentirne l’immissione nel circuito economico e finanziario?

Una cosa è evidente ed è che la globalizzazione è stata già applicata e “digerita” dal sistema mafioso internazionale con l’abolizione di ogni confine in nome del comune interesse economico delle mafie di ogni angolo del mondo con regole adottate ed applicate senza alcun controllo mentre gli Stati si trastullano ancora con l’illusione di poter mantenere una loro sempre più limitata sovranità con meccanismi più o meno “protezionistici” divenuti ormai inefficaci ed anacronistici.

Una considerazione, che può sembrare amara (oltre che impropria in bocca ad un magistrato), ma che vuole invece avere una valenza provocatoria per non rassegnarsi al quadro desolante più sopra tratteggiato, è quella di porre finalmente il problema di archiviare l’illusione che le mafie possono essere contrastate e battute solo col “primato della legge” e vadano invece contrastate con metodiche che ne sterilizzino la capacità di porre a profitto le loro condotte. Per usare una metafora calcistica, se una delle due squadre in campo gioca infrangendo tutte le regole e non adeguandosi alle decisioni arbitrali per l’altra squadra è pura illusione quella di poter giocare alla pari e vincere la partita, ma se all’infrazione delle regole sul campo segue l’immediato annullamento del risultato e la consegna della vittoria alla squadra che gioca secondo le regole diverrà inutile infrangerle. Per fare questo, però, ci vorrebbe un’intesa transnazionale in grado di contrastare sullo stesso piano quella delle mafie e ad oggi, inutile illuderci!, non si intravvede.

Sono un inguaribile positivo e mi domando: la mafia può essere davvero contrastata?

Rispondo: si!, se davvero lo si vuole.

Sebastiano Neri

Banca tempo – relazione Neri PdF